All'epoca (in Romania, ndr.) lavoravo in una fabbrica traducendo le istruzioni d'uso dei macchinari d'importazione tedesca. Da quel momento, ogni paio di giorni, un comandante della Securitate iniziò a venire anche in ufficio. Voleva reclutarmi, come informatore. Dapprima con delle lusinghe ma, quando rifiutai, scagliò il vaso da fiori contro il muro, minacciandomi. Si congedò con la frase: finirai per pentirtene.Ti butteremo nell'acqua.
Iniziarono buttandomi fuori dalla fabbrica. Adesso ero un nemico dello Stato, oltre che disoccupata. (...)
Mia madre chiese: che cosa vogliono da te.
Risposi: paura.
Era vero. Questa breve parola si spiegava da sé. Perché l'intero Stato era un apparato della paura. C'erano i sovrani della paura e il popolo della paura. Ogni dittatura è formata da chi incute paura e dagli altri, che hano paura. Da chi vuole farti paura e chi morde per paura. Ho sempre pensato che la paura sia lo strumento quotidiano di chi vuole metterti paura e il pane quotidiano di chi, per paura, morde. (...)
Non ottenni mai più un posto fisso e non seppi di che vivere. Non avevo un soldo. Occasionalmente mi assegnavano una supplenza in una scuola. Dalla strada sentivo un forte brusio di voci provenire dalla sala insegnanti. Non appena aprivo la porta e mi presentavo in sala, si faceva subito silenzio come in una chiesa. Mi davano un'occhiata e bisbigliavano tra loro. Quanti più "colleghi" avevo intorno, tanto più capivo di essere sola. Al termine della giornata di scuola, mi recavo come tutti alla fermata dell'autobus. Nessuno voleva farsi vedere con me per strada. Una parte degli insegnanti si attardava e restava ben dietro di me. L'altra parte si affrettava e camminava lontano, davanti a me. Lo facevano senza accordarsi, addestrati dalla paura. Altrettanto tremenda quanto le intimidazioni da parte dello Stato e dei servizi segreti era la slitudine. Gli altri insegnanti mi evitavano. Era la loro doppia paura a iolarmi. Avevano paura dello Stato e avevano paura di me. Ero un pericolo. (...)
La maggioranza delle persone in questo Paese contribuiva alla paura portandola con sé.(...)
Ti consideravano un individuo solo se venivi perseguitato, perché l'individuo era considerato un insulto. In caso di "mancato adeguamento al collettivo" ti licenziavano. L'individualismo non doveva esistere, nenanche nell'abbigliamento della gente. (...)
La moda socialista era come un'uniforme. Altrettanto miseri erano mobili, case, parchi, strade. La dittatura allontanava la bellezza da ogni ambito della vita, perché la bellezza è ostinata e particolare e varia. Lo Stato eliminò ogni diversità. (...)
Nei primi anni dopo la dittatura l'Europa orientale sapeva ancora che la libertà era concreta. Che con la libertà ognuno poteva avere un ruolo, parlare e pensare senza paura, che le frontiere erano finlmente aperte e che si poteva viaggiare. (...) Ma l'euforia è finita. Intorno al successo individuale si aggira anche il rischio individuale. È un binomio che rende nervosi e rimette voglia di appoggiarsi. Torni ad augurarti di essere guidato. È come una ricaduta che nessuno aveva previsto. (...)
L'eredità di ogni dittatura è un insieme di dipendenze. La nuova libertà le ha solo celate ma non sono mai scomparse. La dittatura è finita ma le sinpsi sociali tornano a farsi sentire, destabilizzando i Paesi dell'Europa orientale e le loro giovani democrazie.
E questa non è fose la nota "dittatura comoda"? (...)
Dopo il 1989 non ho mai pensato, neanche in sogno, che si potesse rimettere in discussione llibertà. Né che potesse esserci qualcuno che volesse incutermi paura e trasformarmi in una che morde per paura.
Sì, la libertà è qualcosa di cui alcuni hanno bisogno e alri no.
Ed è anche qualcosa che alcuni temono e altri no.
La libertà non va mai data per scontata.
Altrimenti potrebbero rubarcela.
(Herta Müller, premio Nobel per la Lettratura 2009,"La Lettura" n. 48, in "Corriere della Sera", 24.12.2016)
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.