Sono queste le giornate bianche,
senza luci né forme – se uno avesse
un diario, bianca la pagina resterebbe.
Narrano altri di notti in cui non si dorme,
ma io qui di giornate per dove il non-vivere
ci iberna, morti guidati da ciechi
ci scosta azzoppati ai bordi del campo.
Mi assillano le tue rabbie futili,
mi costringono a voltarmi, a guardarti:
a non-parole opporre parole non serve,
né silenzi, bisogna aspettare. E quando
tarda la lettera che dà respiro e così
l’esito incerto di guadagni e agonìe,
pretendo che tutto sia chiaro, e chiuso
con me dentro il mondo che mi porta,
globo trasparente in sé mi sostiene.
Non è dunque bontà
il mio desiderio del bene.
Per sparse probabilità si verifica
l’ordine come vorremmo, ma non siamo
pronti a riconoscerlo – e il tempo spira,
passa via il momento opportuno.
Di altro più che realtà ci disturba il pensiero:
come l’uomo – non so – che all’aperto
costretto a defecare teme che arrivi
la guardia o l’impiegato esemplare
segue con batticuore la teppista puttana
nell’alberghetto trepido di sorprese.
QUI ORA ALTROVE NEL FRATTEMPO che cosa
può accadere? E ti lasci interire
dalla paura ore bianche, giornate
bianche, mesi bianchi ti aspettano,
dovrai aspettare finché
d’aspettare anche il tempo manchi.
E aspettando ti senti grado per grado
scivolare, risali un poco, ma sempre
meno sulla liscia parete fanno presa
gli alluci i calcagni dei nostri piedi storpi.
Sempre meno riguadagni, sempre più perdi.
Oggi la mia vita ha diecimila giorni
quindicimila forse vivi davanti
– e tempo sempre più per sorridere
dei timori assurdi, non guardarmi alle spalle,
e ragione sempre più di ripetermi:
sii uomo, non succede niente, tutto
è già quasi accaduto in quegli affanni
giovanili. Adesso si leva il buon vento
che di serenità ci rende vili.
Per questi segni su questa carta un colore
darò a questo giorno, un nome.
Ma nella guasta coscienza io so
io dubito che altrove o nel frattempo
un altro è il colore del mondo, altro
l’amore a cui mi nascondo.
(G. Giudici, Le giornate bianche, da La vita in versi)
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
Sapere, né potere, bensì ridicolo
Un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
Complicità di visceri, saettano occhiate
D’accordi. E gli astanti s’affacciano
Al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi del sublime-l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
È possibile a tutti più che nascere
E in ogni caso l’essere è più del dire.
(G. Giudici, La vita in versi, da La vita in versi)
Alcuni inseguono tutta la vita
uno scopo – il disegno di un meccanismo
un seme particolare di grano un incrocio di canarini
l’attuazione di un piano la costruzione di una casa.
Alcuni in abitazioni private o in asili
psichiatrici ritentano solitari di carte
o calcoli di moto perpetuo o altre
più improbabili imprese come rivoluzioni.
Essi sono uomini o donne derisi
o tutt’al più gentilmente commiserati
sia perché l’ambizione che li muove si giudica eccessiva
sia perché appare futile l’obiettivo.
Ma io voglio dire che al confronto
non c’è impresa spaziale né invenzione
pari all’attento studio di costoro che sacrificano
alla cosa impossibile ogni raggiungibile piacere.
Essi hanno parenti amici e figli madri e padri
mogli e mariti hanno maestri e direttori di coscienza
che accampano più esperienza
e che li esortano alla quotidiana concretezza.
Essi come ognuno di noi hanno persone e cose
di cui la presenza stessa ha forza più delle parole
e gli argomenti risultano inoppugnabili
quando gli dicono – pensa a quel che fai.
Non c’è dubbio – i persuasori sono nel giusto
perché è senza conforto lo stato di questi ostinati
e agitato è il loro sonno scarsa la salute del corpo
e non hanno alleata la minima probabilità.
Non è il loro coraggio coraggio di giocatore
o rischio calcolato di trafficante
e nemmeno intuito di stratega o di capo politico
o di chirurgo all’unica estrema occasione.
Essi non hanno con sé la tradizione di una fede
anzi tradiscono a volte
sovvertono la morale fomentano il disordine
in se stessi perduti prima di ogni salvezza.
E non possono indicarti il nome di qualcuno
perché non ha fama chi è nella vera ignominia
né superbia di martirio né la gloria di un emblema
ma grazie ad essi ha un senso la specie uomo.
Pensando di loro ti scrivo queste parole
oggi che dirci insieme è dire nessuna speranza
sbarrati da ogni saggezza sbarrati dalla storia
ormai più di passato che di futuro nutribili.
E chiamandoti a un futuro di penuria
io chiedo la tua insania perché la mia abbia forza
perché si possa dire che è una cosa reale
quella che due distinte persone vedono identica.
E tutto questo è ancora poco al confronto
del nulla di chi insegue un solitario ideale.
Essere umani può anche significare rassegnarsi.
Ma essere più umani è persistere a darsi.
(G. Giudici, Alcuni, da O Bearice)
Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un'altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti coi giornali, i suoi guaìti commenti.
Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l'educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.
Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall'angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni
siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega al suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?
Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene
qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di futuro che mi estenua,
ma poi d'un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?
Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani... pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo.
C'è più onore in tradire che in esser fedeli a metà.
(G. Giudici, Una sera come tante, da La vita in versi)
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