La primavera

La primavera
... sdegno il verso che suona e non crea (Foscolo, "Le Grazie")

mercoledì 27 marzo 2024

Franco Arminio - Punta sulle nuvole

 

PUNTA SULLE NUVOLE


Punta sulle nuvole
sugli alberi e su altre cose mute,
non tue, non vicine,
non addestrate a compiacerti,
punta sulla luce, cercala sempre,
infine punta sulla tua follia,
se ce l’hai, se non te l’hanno rubata
da piccolo.

(FRANCO ARMINIO)

 

Punta sulle nuvole è un’espressione polisemica.

1)  Prima di tutto esorta a tener conto del fatto che esiste un mondo al di fuori di noi. Si tratta di un invito a superare e limitare la nostra “egoarchia” individuale (sottoforma di narcisismo) e collettiva (come prometeismo: tendenza a spingerci al di là di ogni limite).

Il mondo occidentale è vittima di una terribile malattia, l’antropocentrismo: l’uomo occidentale si sente il centro dell'universo, forse padrone del mondo e per questo in diritto di violentarlo e rovinarlo. Il principio dell’homo mensura di Protagora ha fatto perdere di vista il valore della coabitazione dell’uomo con altre forme di vita.

A riportarci a più umili prospettive deve essere la necessaria constatazione che noi siamo parte di un insieme più grande che esiste, con le sue leggi, a prescindere da noi e che dobbiamo rispettare: la nuvola scorre libera e leggera e se ne infischia di noi. Con la sua la sua bellezza non sa che esistiamo.

L’auspicio di Arminio  è che l’umiltà delle piccole cose della natura ci faccia acquisire una prospettiva meno autocentrata.

La follia, allora, sarà questo: uno sguardo DIVERSO sul mondo e sulla vita, la capacità di rinunciare alla pretesa di conquistare tutto e sfidare ogni limite con la nostra prometeica ragione, accumulando sapere su sapere per conquistare la luna e andare oltre, recuperiamo la voglia di sognare: eleviamoci oltre la prospettiva dell’UTILE, del funzionale per riconquistare la BELLEZZA e restituirle spazio (abbiamo funzionalissime città di cemento e ipermercati, ma senza fiori). Ciò che è utile, di solito è brutto: Veramente bello è soltanto ciò che non può servire a nulla; tutto ciò che è utile è brutto, perché è l’espressione di un determinato bisogno, e i bisogni dell’uomo sono ignobili e disgustosi, come la sua povera e inferma natura. Il luogo più utile di una casa è il cesso. (T. GAUTIER, Madmoiselle de Maupin)

In una realtà che antepone la ragione tecnica in un sistema che “funzioni”, facciamolo inceppare ogni tanto, questo sistema, e restituiamo al desiderio la sua dignità.

Le nuvole sono sopra di noi, in alto, sono leggere. L’invito di Arminio è quello di recuperare quella “leggerezza” così cara a Calvino: uno sguardo che ci distolga dall’inferno quotidiano e ci elevi al di là della pesantezza del vivere in cui spesso ci sentiamo solo ingranaggi “utili” al funzionamento di un sistema, ma disanimati e spersonalizzati persi tra le

chiacchiere del giorno
tutte uguali, una giostra di parole
che non sa di niente.
 

(Cfr.:https://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/approfondimenti/una-lettera-a-ppp-di-franco-arminio-paesologo/)

 

 

 

 

 

mercoledì 21 febbraio 2024

IL TEMPO, LA VITA

 

IL TEMPO

Le dita sulla tastiera del computer schioccano
– solo piú leggermente –
come un tempo la macchina per scrivere.
Era bello quel nome: macchina, ancora meglio
quando senza la c ritorna machina.
Impalcatura per un dio o un assedio,
ariete per abbattere le mura.
Rimandava a un arto di ferro, un ordigno
e un artiglio che ubbidiva al cervello.
Eppure non ha senso
rimpiangere il passato,
provare nostalgia per quello che
crediamo di essere stati.
Ogni sette anni si rinnovano le cellule:
adesso siamo chi non eravamo.
Anche vivendo – lo dimentichiamo –
restiamo in carica per poco.

Antonella Anedda , da Historiae, Einaudi, Torino, 2018

Il tempo della vita in cui “restiamo in carica”, quello che autenticamente ci appartiene, è breve. L’ispirazione del concetto di A. Anedda coincide con un principio senecano relativo alla brevità effettiva della vita umana rispetto alle aspettative e ai desideri di ognuno: è esigua la parte della vita in cui, appunto, “restiamo in carica”, cioè viviamo veramente e non ci limitiamo a stare in vita, a esistere o sopravvivere o vivere solo biologicamente. Scrive infatti il filosofo nel suo De Brevitate vitae: Hi si volent scire quam brevis ipsorum vita sit, cogitent ex quota parte sua sit (“Se questi vorranno sapere quanto sia breve la loro vita, considerino quanta parte di essa gli appartenga”).

Ovviamente è inutile rimpiangere il passato e le occasioni perdute: il passato è irrevocabile e non si può vivere di nostalgie (il dolore per un ritorno impossibile), non siamo più quelli di ieri e con le nostre continue trasformazioni (siamo chi non eravamo) dobbiamo misurarci e fare i conti. Ma possiamo incominciare a vivere e a dare senso al tempo che ci resta, facendo le nostre scelte.

È questo il messaggio che viene dagli antichi: più che il rammarico per il passato che non torna e per la brevità dell’esistenza, gli antichi danno un messaggio costruttivo su come vivere il tempo, sulla sua qualità. Il dato oggettivo è che il tempo è un “ritaglio” (dal greco, "temno", tagliare) rispetto all’intero dell’eternità (aéi=sempre), ma solo questo ritaglio abbiamo (Seneca, Ep. I,1. tempus tantum nostrum est: di tutti i beni solo il tempo è davvero nostro, dipende da noi e dall’attenzione che gli dedichiamo) e dobbiamo fare in modo che sia bello e non vada sprecato.

Inseguendo l'ombra, il tempo invecchia in fretta, scriveva Crizia (Atene, 460 a.C. – Atene, inverno 403 a.C.), politico, scrittore e filosofo greco antico, già discepolo di Socrate e in seguito capo dei Trenta tiranni di Atene. E a questo frammento A. Tabucchi si è ispirato per la sua raccolta di racconti intitolata, appunto, Il tempo invecchia in fretta, proprio per sottolinearne la fugacità.
L’esortazione di Crizia è chiara: dobbiamo cercare di dare spazio a momenti che abbiano valore e non a vane illusioni, dobbiamo cercare di capire che cosa veramente conta per rimanere davvero immortali nel ricordo di chi resta: non saremo ricordati per i soldi che avremo accumulato o per le macchine che avremo venduto, comprato, piuttosto per l’amore che avremo saputo dare.

 Orazio nel Carpe diem dà indicazioni ancora più pratiche, suggerisce una vera e propria ars vivendi.


Hor. carm. 1,11
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi 
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios 
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati. 
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, 
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: 
sapias, vina liques, et spatio brevi 
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida 
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

Luca Canali

Non chiedere, o Leuconoe (è illecito sapero) qual fine abbiano a te e a me assegnato gli dei, e non scrutare gli oroscopi babilonesi. Quant’è meglio accettare quel che sarà! Ti abbia assegnato Giove molti inverni, oppure ultimo quello che ora affatica il mare Tirreno contro gli scogli, sii saggia, filtra vini, tronca lunghe speranze per la vita breve. Parliamo e intanto fugge l’astioso tempo. Afferra l’oggi, credi al domani (postero diei sott.) quanto meno puoi.

 Carpere da karpós (frutto): dobbiamo saper riconoscere i momenti belli da eternare, come sappiamo riconoscere il sapore di un frutto polposo (quando non è acerbo, né appassito) o di un fiore: dipende da noi saper fare attenzione al senso delle cose, dei momenti che contano e renderli eterni (viverli e ricordarli). Non si tratta di cercare la straordinarietà di imprese eccezionali o memorabili: la capacità sta nel saper trovare la straordinarietà nell’ordinario, nel saper riconoscere come prezioso un momento per il senso che noi gli attribuiamo e gli riconosciamo (un incontro, un abbraccio, una chiacchierata, una lettura, una giornata particolare al lavoro, uno scambio di idee, un bacio). Orazio ci dice che dobbiamo dare noi sapore alla nostra vita filtrando le esperienze, in modo tale da saper distinguere ciò che ha sapore/ valore e ciò che invece è solo scarto, inutile, superfluo (sapias, vina liques)

Questo significa vivere il presente – l’unico tempo che davvero ci appartiene – con attenzione e cura, affinando la capacità di cogliere il senso, il valore e la bellezza inattesa e straordinaria che si nasconde nell’ordinario: le risate nascoste dei bimbi tra le foglie. È questione di prospettiva, di esercizio: bisogna farci caso, alla vita.

Inattese in un raggio di sole
mentre la polvere si muove
si alzano le risate nascoste
dei bimbi tra le foglie
Presto, qui, ora, sempre –
ridicolo, sprecato e triste il tempo
che prima e dopo si stende.

T. S. Eliot, Burt Norton (castello disabitato nel Gloucestershire, Inghilterra), in Quattro quartetti

 

 

mercoledì 3 gennaio 2024

B. Brecht, Piaceri

 

Piaceri 

Il primo sguardo dalla finestra al mattino                                

il vecchio libro ritrovato

volti entusiasti

neve, il mutare delle stagioni

il giornale

il cane

la dialettica

fare la doccia, nuotare

musica antica

scarpe comode

capire

musica moderna

scrivere, piantare

viaggiare

cantare

essere gentili.

Bertolt Brecht, Piaceri 1954/55

 

C’è un episodio della vita di Brecht che bisogna conoscere per capire fino in fondo Piaceri. Nel 1916, mentre in Europa infuria la Grande Guerra, generata di nazionalismi feroci, in un commento al verso oraziano dulce et decorum est pro patria mori, un Brecht giovanissimo prende una netta posizione contro le politiche nazionalistiche del suo tempo, contro le morti eroiche: sottolinea che tali affermazioni sono solo frutto di vuota propaganda, vengono in genere pronunciate da che si sente lontano dalla morte. E quando invece la fine si avvicina tutti questi eroi gonfi di parole, non esitano invece a darsi alla fuga, proprio come fece Orazio, che nella battaglia di Filippi scappò e abbandonò lo scudo, per poi diventare poeta di corte, entrando a far parte del circolo augusteo coordinato da Mecenate: Brecht condanna Orazio per la sua collaborazione con un princeps liberticida e lo definisce – certamente esagerando – il grasso giullare dell’imperatore.

Per questo episodio Brecht rischiò l’espulsione dalla scuola, in cui rimase solo grazie all’intervento di persone influenti che chiesero l’archiviazione del fatto.

Nel tempo le posizioni politiche di Brecht si radicalizzarono fino all’aperta opposizione alle politiche naziste: fu perseguitato e esiliato. Lasciò Berlino.

Tutta la poesia di Brecht risente del suo forte impegno politico. Quindi Piaceri sembra un componimento insolito, non solo perché non ha un messaggio politico, ma – alla luce di quanto sappiamo della sua esplicita condanna di Orazio – recupera proprio dal poeta latino che da giovane aveva tanto condannato, l’invito a cogliere l’essenza della vita nelle gioie quotidiane. Orazio, infatti, nel carme 11 – il noto carme del Carpe diem – invita con una semplice metafora, la giovane Leuconoe a flitrare il vino, ad andare cioè all’essenza delle cose, a ristabilire la gerarchia dei valori, a dare senso al nostro tempo, alla nostra esistenza.

Alcuni dei piaceri indicati da Brecht attraverso la tecnica dell’elencazione di parole-verso (o solo nomi o solo verbi) fanno riferimento al concetto di rinascita, anche se in senso metaforico.

-         Il primo sguardo dalla finestra al mattino: il nuovo giorno e la prospettiva con cui lo guardiamo ci predispone verso quotidiane rinascite, ripensamenti, riappropriazioni di noi stessi, di particolari che ci erano sfuggiti.

-         Il vecchio libro ritrovato: ogni lettura è sempre una rinascita, perché leggendo viviamo le vite degli altri e in loro riconosciamo una parte di noi. Poi, in particolare, in un vecchio libro riscopriamo sottolineature e note del passato, attraverso le quali scopriamo i nostri cambiamenti, le nostre rinascite, le nostre nuove riletture, diverse interpretazioni.

-         Il mutare delle stagioni: la vita è un eterno rysmos diceva Archiloco nel VII sec. a. C. e dopo ogni inverno c’è sempre un’estate che rinasce, dopo il buio della notte il sole sorge ancora. Dal dolore bisogna saper rinascere.

-         Essere gentili: questa è la vera rivoluzione per una rinascita non solo individuale, ma collettiva, la rivoluzione della gentilezza è quella che potrà dare nuova forma al mondo.

In una società ormai preda di conflitti e radicalizzazioni estreme, essere gentili vorrà dire “lasciare che l’altro sia”, evitare le istintive prevaricazioni e egolatrie, capire che la gentilezza comincia dalle cose semplici, dalle parole, quelle che dobbiamo saper ascoltare, quelle che dobbiamo saper selezionare, quelle non dobbiamo dire perché il silenzio a volte è una scelta migliore: come diceva ancora Orazio, nescit vox missa reverti, una parola ormai pronunciata non può più tornare indietro, lascia ferite che nessun rimorso potrà sanare.

Nell’imparare a essere gentili è la rinascita di un’umanità nuova.

 


P. P. PASOLINI - IRROMPONO I GRILLI

 

Irrompono negli orecchi, fissi,                                           

dai nuovi campi dell’Aniene i vecchi
grilli, e mi gridano in silenzio
la mia inascoltata solitudine.
Scomparso dentro questa vecchia
calma campestre che non è la mia
rincaso, e sotto i lontani punti
dei lumi dei sobborghi, i grilli
sollevano un canto che ricopre
con la malinconia il rimorso
e con la monotonia il terrore.

Pier Paolo Pasolini

da: Poesia 278, Anno XXVI, gennaio 2013, Crocetti

Questi versi di Pasolini si riferiscono a un momento preciso della sua vita: il poeta ha appena lasciato Casarsa per recarsi a Roma – siamo nel gennaio del 1950 – dopo un evento traumatico e per quei empi scandaloso: a Ramuscello, durante la festa di Santa Sabina Pasolini sia apparta con un ragazzo. Per questo verrà processato con l’accusa di corruzione di minore e atti osceni in luogo pubblico, viene espulso dal PCI e perde il suo lavoro di insegnante presso la scuola di Valvasone.

Lo stato d’animo con cui il poeta raggiunge Roma è quello di un esiliato in cammino verso l’ignoto tra gente estranea.

Pertanto il silenzio in cui irrompono i grilli ha sfumature molteplici: è il restare inascoltati nella solitudine, nel deserto affettivo, illuminato solo dalla inseparabile madre Susanna Colussi; è lo smarrimento, lo sradicamento dell’esule che in una terra nuova si prepara ad affrontare le incognite del futuro con addosso il peso del passato.

In questa dimensione il canto dei grilli è come un grido nel silenzio – i grilli infatti sono antropomorfizzati e non friniscono, ma gridano – il loro canto non è un conforto, una consolazione bucolica, è un verso malinconico e monotono nel quale il poeta sente rispecchiarsi il suo stato d’animo in cui si mescolano rimorso del passato e terrore per il futuro.

E i grilli che squarciano il silenzio sono vecchi, sono i grilli di un’antica tradizione letteraria, sono grilli “parlanti”, rappresentano la voce della coscienza con cui il poeta si sente condannato a fare i conti come un peso che schiaccia, e che prende forma nel rimorso di una colpa che una società ancora primitiva gli ha addossato.

Il silenzio, allora, è quello di una forte estraneità di Pasolini al tempo in cui vive, ai suoi valori ipocriti e perbenisti, un'estraneità che diventa dolore insopprimibile se la coscienza soggettiva ha interiorizzato la morale comune e non è libera di avere una voce propria.