Irrompono negli orecchi, fissi,
dai nuovi campi dell’Aniene i vecchigrilli, e mi gridano in silenzio
la mia inascoltata solitudine.
Scomparso dentro questa vecchia
calma campestre che non è la mia
rincaso, e sotto i lontani punti
dei lumi dei sobborghi, i grilli
sollevano un canto che ricopre
con la malinconia il rimorso
e con la monotonia il terrore.
Pier Paolo Pasolini
da: Poesia 278,
Anno XXVI, gennaio 2013, Crocetti
Questi versi di Pasolini
si riferiscono a un momento preciso della sua vita: il poeta ha appena lasciato
Casarsa per recarsi a Roma – siamo nel gennaio del 1950 – dopo un evento
traumatico e per quei empi scandaloso: a Ramuscello, durante la festa di Santa
Sabina Pasolini sia apparta con un ragazzo. Per questo verrà processato con l’accusa
di corruzione di minore e atti osceni in luogo pubblico, viene espulso dal PCI
e perde il suo lavoro di insegnante presso la scuola di Valvasone.
Lo stato d’animo con cui il
poeta raggiunge Roma è quello di un esiliato in cammino verso l’ignoto tra
gente estranea.
Pertanto il silenzio in
cui irrompono i grilli ha sfumature molteplici: è il restare inascoltati
nella solitudine, nel deserto affettivo, illuminato solo dalla inseparabile
madre Susanna Colussi; è lo smarrimento, lo sradicamento dell’esule che in una
terra nuova si prepara ad affrontare le incognite del futuro con addosso il
peso del passato.
In questa dimensione il
canto dei grilli è come un grido nel silenzio – i grilli infatti sono antropomorfizzati
e non friniscono, ma gridano – il loro canto non è un conforto, una
consolazione bucolica, è un verso malinconico e monotono nel quale il poeta
sente rispecchiarsi il suo stato d’animo in cui si mescolano rimorso del passato
e terrore per il futuro.
E i grilli che squarciano il silenzio sono vecchi, sono i grilli di un’antica tradizione letteraria, sono grilli “parlanti”, rappresentano la voce della coscienza con cui il poeta si sente condannato a fare i conti come un peso che schiaccia, e che prende forma nel rimorso di una colpa che una società ancora primitiva gli ha addossato.
Il silenzio, allora, è quello di una forte estraneità di Pasolini al tempo in cui vive, ai suoi valori ipocriti e perbenisti, un'estraneità che diventa dolore insopprimibile se la coscienza soggettiva ha interiorizzato la morale comune e non è libera di avere una voce propria.
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