Quando descrive la peste di Atene che decima il popolo e si
porta via il più grande statista del tempo (Pericle), lo storiografo Tucidide non
intende limitarsi a parlare della patogenesi e della fenomenologia della
malattia né vuole soltanto sottolineare come in tempi di crisi la peste non sia
esclusivamente una piaga del corpo, ma anche una malattia dell’animo: quando, infatti,
non si riconosce più il senso umano della vita e quando si perde ogni traccia
di anelito spirituale, allora, sì, la peste ha colpito al cuore l’esistenza .
No, Tucidide nella peste vede un pericolo enorme, più grande del numero delle
vittime e più acuto del dolore dei corpi, più duraturo dell’agonia dei singoli
individui: nella peste Tucidide scorge il virus della fine di un’epoca, il sintomo della deriva di una polis in difficoltà, già travolta dalla guerra contro Sparta, la peste acuisce il pericolo della sconfitta e della schiavitù, la preoccupazione di cadere "in avventure politiche rovinose per la stessa sopravvivenza dello Stato". Nella
peste si annidano i germi della fine della democrazia: dalla peste nascerà la malattia del linguaggio, quello della Sofistica degenerata in Eristica, la patologia del linguaggio che con le sue capziosità e ambiguità riesce a far prevalere il discorso debole su quello forte; alla peste nascerà il
regime dei Trenta Tiranni, quello che condannerà a morte Socrate, il libero
pensiero; dalla peste nascerà la dittatura.
“Tutte le disgrazie degli uomini derivano dal non tenere un
linguaggio chiaro”, ammonisce Camus nel suo romanzo “La peste”. E in effetti, oggi
lo stiamo sperimentando: i decreti plurimi e ambigui, fumosi e intenzionalmente
polisemici, emanati dal governo, le cui esternazioni notturne - poco
chiarificatrici e molto ansiogene - alimentano il senso di smarrimento
generale; le confusioni strumentali che si annidano nelle dichiarazioni di
politici attenti solo a catturare consensi; le contraddizioni lessicali e
contenutistiche fra virolgi, epidemiologi, esperti, scienziati; il vano parlare
di inconcludenti narcisisti del web e della TV; e infine le polemiche astratte tra filosofi
sull’essenza del Male, come quella recente tra Agamben e Flores D’Arcais lo
dimostrano chiaramente. Con "la peste del linguaggio" - così la chiamava Italo Calvino nelle sue Lezioni americane - comincia la fine di una
democrazia.
Rispetto del dolore, attenzione alla sofferenza, onestà delle
parole, coerenza delle decisioni politiche: questo chiediamo ai tempi del Coronavirus.
Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
(G. Ungaretti)
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