La primavera

La primavera
... sdegno il verso che suona e non crea (Foscolo, "Le Grazie")

martedì 21 aprile 2020

Philip Roth - Politica vs Letteratura

- La politica è la grande generalizzatrice, - mi diceva Leo, - e la letteratura è la grande particolareggiatrice, e non soltanto esse sono tra loro in relazione inversa, ma hanno addirittura un rapporto antagonistico. Per la politica, la letteratura è decadente, molle, irrilevante, fastidiosa, ostinata, noiosa, una cosa che non ha senso e che non dovrebbe neppure esistere. Perché? Perché la letteratura è l’impulso a entrare nei particolari. Come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature? Ma come puoi essere un politico e permettere le sfumature? Come artista, le sfumature sono il tuo dovere. Il tuo dovere è non semplificare. Anche se tu dovessi scegliere di scrivere nel modo più semplice, alla Hemingway, resta il dovere di dare la sfumatura, spiegare la complicazione, suggerire la contraddizione. Non cancellare la contraddizione, non negare la contraddizione, ma vedere dove, all’interno della contraddizione, si colloca lo straziato essere umano. Tener conto del caos, farlo entrare. Devi farlo entrare. Altrimenti produci propaganda, se non per un partito politico, per un movimento politico, stupida propaganda per la vita stessa, per la vita come essa stessa, forse, vorrebbe essere propagandata.
Nei primi cinque o sei anni della rivoluzione russa i rivoluzionari gridavano: “Amore libero, ci sarà l’amore libero!” Ma, una volta al potere, non potevano permetterlo. Perché l’amore libero cos’è? È il caos. Ed essi non volevano il caos. Non era per questo che avevano fatto la loro gloriosa rivoluzione. Volevano qualcosa di accuratamente disciplinato, organizzato, contenuto, prevedibile scientificamente, se possibile. L’amore libero nuoce all’organizzazione, all’apparato sociale, politico e culturale. Anche l’arte nuoce all’organizzazione. La letteratura nuoce all’organizzazione. Non perché sia apertamente pro o contro, o anche subdolamente pro o contro. Nuoce all’organizzazione perché non è generale. L’intrinseca natura del particolare consiste nella sua particolarità, e l’intrinseca natura della particolarità sta nel non potersi conformare.
Sofferenza generalizzata? Ecco il comunismo. Sofferenza particolareggiata? Ecco la letteratura.
(P. Roth, Ho sposato un comunista)

giovedì 26 marzo 2020

La peste del linguaggio


Quando descrive la peste di Atene che decima il popolo e si porta via il più grande statista del tempo (Pericle), lo storiografo Tucidide non intende limitarsi a parlare della patogenesi e della fenomenologia della malattia né vuole soltanto sottolineare come in tempi di crisi la peste non sia esclusivamente una piaga del corpo, ma anche una malattia dell’animo: quando, infatti, non si riconosce più il senso umano della vita e quando si perde ogni traccia di anelito spirituale, allora, sì, la peste ha colpito al cuore l’esistenza . No, Tucidide nella peste vede un pericolo enorme, più grande del numero delle vittime e più acuto del dolore dei corpi, più duraturo dell’agonia dei singoli individui: nella peste Tucidide scorge il virus della fine di un’epoca, il sintomo della deriva di una polis in difficoltà, già travolta dalla guerra contro Sparta, la peste acuisce il pericolo della sconfitta e della schiavitù, la preoccupazione di cadere "in avventure politiche rovinose per la stessa sopravvivenza dello Stato". Nella peste si annidano i germi della fine della democrazia: dalla peste nascerà la malattia del linguaggio, quello della Sofistica degenerata in Eristica, la patologia del linguaggio che con le sue capziosità e ambiguità riesce a far prevalere il discorso debole su quello forte; alla peste nascerà il regime dei Trenta Tiranni, quello che condannerà a morte Socrate, il libero pensiero; dalla peste nascerà la dittatura.
“Tutte le disgrazie degli uomini derivano dal non tenere un linguaggio chiaro”, ammonisce Camus nel suo romanzo “La peste”. E in effetti, oggi lo stiamo sperimentando: i decreti plurimi e ambigui, fumosi e intenzionalmente polisemici, emanati dal governo, le cui esternazioni notturne - poco chiarificatrici e molto ansiogene - alimentano il senso di smarrimento generale; le confusioni strumentali che si annidano nelle dichiarazioni di politici attenti solo a catturare consensi; le contraddizioni lessicali e contenutistiche fra virolgi, epidemiologi, esperti, scienziati; il vano parlare di inconcludenti narcisisti del web e della TV;  e infine le polemiche astratte tra filosofi sull’essenza del Male, come quella recente tra Agamben e Flores D’Arcais lo dimostrano chiaramente. Con "la peste del linguaggio" - così la chiamava Italo Calvino nelle sue Lezioni americane - comincia la fine di una democrazia.
Rispetto del dolore, attenzione alla sofferenza, onestà delle parole, coerenza delle decisioni politiche: questo chiediamo ai tempi del Coronavirus.

Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
(G. Ungaretti)

domenica 22 marzo 2020

Sofocle - Antigone


Per l’uomo nulla ha poteri così tristi e larghi come il danaro, che città devasta, 
uomini strappa dalle case, 
istruisce le menti pure a concepire il male,
 le perverte e le muta, del delitto indica il passo 
e l’esperienza schiude ad ogni empietà.
(SOFOCLE, “Antigone”)




Danilo Dolci - Poesia diversa


C'è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c'è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C'è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c'è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C'è pure chi educa, senza nascondere
l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d'essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
(Danilo Dolci, da Il limone lunare "Poesia diversa")


Rilke - Sonetti a Orfeo, I,12

Lode allo Spirito che sa connetterci,
perché la nostra vita è fatta di figure.
E il nostro giorno autentico non si misura
sul passo minimo delle lancette.
Rilke ritratto da Leonid Pasternak

Pur ignorando il nostro posto vero,
nell'azione un reale Rapporto ci orienta.
Le antenne sentono le altre antenne,
e messaggi attraversano le vuote lontananze ...

Tensione pura. Musica delle forze!
Dedicarti a faccende inessenziali
non distoglie da te ciò che perturba?

E anche il villano che opera e si affanna
dove il seme si muta in messe estiva,
non è lui che lo fa. La terra dona.
(R.M.Rilke, Sonetti a Orfeo, I, 12)









Dino Buzzati - Qualcosa era successo

Il treno aveva percorso solo pochi chilometri (e la strada era lunga, ci saremmo fermati soltanto alla lontanissima stazione d'arrivo, così correndo per dieci ore filate) quando a un passaggio a livello vidi dal finestrino una giovane donna. Fu un caso, potevo guardare tante altre cose invece lo sguardo cadde su di lei che non era bella né di sagoma piacente, non aveva proprio niente di straordinario, chissà perché mi capitava di guardarla. Si era evidentemente appoggiata alla sbarra per godersi la vista del nostro treno, superdirettissimo, espresso del nord, simbolo per quelle popolazioni incolte, di miliardi, vita facile, avventurieri, splendide valige di cuoio, celebrità, dive cinematografiche, una volta al giorno questo meraviglioso spettacolo, e assolutamente gratuito per giunta.

Ma come il treno le passò davanti lei non guardò dalla nostra parte (eppure era là ad aspettare forse da un'ora) bensì teneva la testa voltata indietro badando a un uomo che arrivava di corsa dal fondo della via e urlava qualcosa che noi naturalmente non potemmo udire: come se accorresse a precipizio per avvertire la donna di un pericolo. Ma fu un attimo: la scena volò via, ed ecco io mi chiedevo quale affanno potesse essere giunto, per mezzo di quell'uomo, alla ragazza venuta a contemplarci. E stavo per addormentarmi al ritmico dondolio della vettura quando per caso - certamente si trattava di una pura e semplice combinazione - notai un contadino in piedi su un muretto che chiamava chiamava verso la campagna facendosi delle mani portavoce. Fu anche questa volta un attimo perché il direttissimo filava eppure feci in tempo a vedere sei sette persone che accorrevano attraverso i prati, le coltivazioni, l'erba medica, non importa se la calpestavano, doveva essere una cosa assai importante. Venivano da diverse direzioni chi da una casa, chi dal buco di una siepe chi da un filare di viti o che so io, diretti tutti al muriccioio con sopra il giovane chiamante. Correvano, accidenti se correvano, si sarebbero detti spaventati da qualche avvertimento repentino che li incuriosiva terribilmente, togliendo loro la pace della vita. Ma fu un attimo, ripeto, un baleno, non ci fu tempo per altre osservazioni.

Che strano, pensai, in pochi chilometri già due casi di gente che riceve una improvvisa notizia, così almeno presumevo. Ora, vagamente suggestionato, scrutavo la campagna, le strade, i paeselli, le fattorie, con presentimenti ed inquietudini.

Forse dipendeva da questo speciale stato d'animo, ma più osservavo la gente, contadini, carradori, eccetera, più mi sembrava che ci fosse dappertutto una inconsueta animazione. Ma sì, perché quell'andirivieni nei cortili, quelle donne affannate, quei carri, quel bestiame? Dovunque era lo stesso. A motivo della velocità era impossibile distinguere bene eppure avrei giurato che fosse la medesima causa dovunque. Forse che nella zona si celebravan sagre? Che gli uomini si disponessero a raggiungere il mercato? Ma il treno andava e le campagne erano tutte in fermento, a giudicare dalla confusione. E allora misi in rapporto la donna del passaggio a livello, il giovane sul muretto, il viavai dei contadini: qualche cosa era successo e noi sul treno non ne sapevamo niente.

Guardai i compagni di viaggio, quelli dello scompartimento, quelli in piedi nel corridoio. Essi non si erano accorti. Sembravano tranquilli e una signora di fronte a me sui sessant'anni stava per prender sonno. O invece sospettavano? Sì, sì, anche loro erano inquieti, uno per uno, e non osavano parlare. Più di una volta li sorpresi, volgendo gli occhi repentini, guatare fuori. Specialmente la signora sonnolenta, proprio lei, sbirciava tra le palpebre e poi subito mi controllava se mai l'avessi smascherata. Ma di che avevano paura?

Napoli. Qui di solito il treno si ferma. Non oggi il direttissimo. Sfilarono rasente a noi le vecchie case e nei cortili oscuri vedemmo finestre illuminate e in quelle stanze - fu un attimo - uomini e donne chini a fare involti e chiudere valige, così pareva. Oppure mi ingannavo ed erano tutte fantasie?

Si preparavano a partire. Per dove? Non una notizia fausta dunque elettrizzava città e campagne. Una minaccia, un pericolo, un avvertimento di malora. Poi mi dicevo: ma se ci fosse un grosso guaio, avrebbero pure fatto fermare il treno; e il treno invece trovava tutto in ordine, sempre segnali di via libera, scambi perfetti, come per un viaggio inaugurale.

Un giovane al mio fianco, con l'aria di sgranchirsi, si era alzato in piedi. In realtà voleva vedere meglio e si curvava sopra di me per essere più vicino al vetro. Fuori, le campagne, il sole, le strade bianche e sulle strade carriaggi, camion, gruppi di gente a piedi, lunghe carovane come quelle che traggono ai santuari nel giorno del patrono. Ma erano tanti, sempre più folti man mano che il treno si avvicinava al nord. E tutti avevano la stessa direzione, scendevano verso mezzogiorno, fuggivano il pericolo mentre noi gli si andava direttamente incontro, a velocità pazza ci precipitavamo verso la guerra, la rivoluzione, la pestilenza, il fuoco, che cosa poteva esserci mai? Non lo avremmo saputo che fra cinque ore, al momento dell'arrivo, e forse sarebbe stato troppo tardi.

Nessuno diceva niente. Nessuno voleva essere il primo a cedere. Ciascuno forse dubitava di sé, come facevo io, nell'incertezza se tutto quell'allarme fosse reale o semplicemente un'idea pazza, allucinazione, uno di quei pensieri assurdi che infatti nascono in treno quando si è un poco stanchi. La signora di fronte trasse un sospiro, simulando di essersi svegliata, e come chi uscendo dal sonno leva gli sguardi meccanicamente, così lei alzo le pupille fissandole, quasi per caso, alla maniglia del segnale d'allarme. E anche noi tutti guardammo l'ordigno, con l'identico pensiero. Ma nessuno parlò o ebbe l'audacia di rompere il silenzio o semplicemente osò chiedere agli altri se avessero notato, fuori, qualche cosa di allarmante.

Ora le strade formicolavano di veicoli e gente, tutti in cammino verso il sud. Rigurgitanti i treni che ci venivano incontro. Pieni di stupore gli sguardi di coloro che da terra ci vedevano passare, volando con tanta fretta al settentrione. E zeppe le stazioni. Qualcuno ci faceva cenno, altri ci urlavano delle frasi di cui si percepivano soltanto le vocali come echi di montagna.

La signora di fronte prese a fissarmi. Con le mani piene di gioielli cincischiava nervosamente un fazzo1etto e intanto i suoi sguardi supplicavano: parlassi, finalmente, li sollevassi da quel silenzio, pronunciassi la domanda che tutti si aspettavano come una grazia e nessuno per primo osava fare.

Ecco un'altra città. Come il treno, entrando nella stazione, rallentò un poco, due tre si alzarono non resistendo alla speranza che il macchinista fermasse. Invece si passò, fragoroso turbine, lungo le banchine dove una folla inquieta si accalcava anelando a un convoglio che partisse, tra caotici mucchi di bagagli. Un ragazzino tentò di rincorrerci con un pacco di giornali e ne sventolava uno che aveva un grande titolo nero in prima pagina. Allora con un gesto repentino, la signora di fronte a me si sporse in fuori, riuscì ad abbrancare il foglio ma il vento della corsa glielo strappò via. Tra le dita restò un brandello. Mi accorsi che le sue mani tremavano nell'atto di spiegarlo. Era un pezzetto triangolare. Si leggeva la testata e del gran titolo solo quattro lettere. IONE, si leggeva. Nient'altro. Sul verso, indifferenti notizie di cronaca.

Senza parole, la signora alzò un poco il frammento affinché tutti lo potessero vedere. Ma tutti avevamo già guardato. E si finse di non farci caso. Crescendo la paura, più forte in ciascuno si faceva quel ritegno. Verso una cosa che finisce in IONE noi correvamo come pazzi, e doveva essere spaventosa se, alla notizia, popolazioni intere si erano date a immediata fuga. Un fatto nuovo e potentissimo aveva rotto la vita del Paese, uomini e donne pensavano solo a salvarsi, abbandonando case, lavoro, affari, tutto, ma il nostro treno no, il maledetto treno marciava con la regolarità di un orologio, al modo del soldato onesto che risale le turbe dell'esercito in disfatta per raggiungere la sua trincea dove il nemico già sta bivaccando. E per decenza, per un rispetto umano miserabile, nessuno di noi aveva il coraggio di reagire. Oh i treni come assomigliano alla vita!

Mancavano due ore. Tra due ore, all'arrivo, avremmo saputo la comune sorte. Due ore, un'ora e mezzo, un'ora, già scendeva il buio. Vedemmo di lontano i lumi della sospirata nostra città e il loro immobile splendore riverberante un giallo alone in cielo ci ridiede un fiato di coraggio. La locomotiva emise un fischio, le ruote strepitarono sul labirinto degli scambi. La stazione, la curva nera delle tettoie, le lam- pade, i cartelli, tutto era a posto come il solito.

Ma, orrore!, il direttissimo ancora andava e vidi che la stazione era deserta, vuote e nude le banchine, non una figura umana per quanto si cercasse. Il treno si fermava finalmente. Corremmo giù per i marciapiedi, verso l'uscita, alla caccia di qualche nostro simile. Mi parve di intravedere, nell'angolo a destra in fondo, un po' in penombra, un ferroviere col suo berrettuccio che si eclissava da una porta, come terrorizzato. Che cosa era successo? In città non avremmo più trovato un'anima? Finché la voce di una donna, altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido.

" Aiuto! Aiuto! " urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati.
(D. Buzzati, da Il crollo della Baliverna, "Qualcosa era successo")

Camillo Sbarbaro, Taci, anima stanca


Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio. Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato … Invece camminiamo,
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto. Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso

(C. Sbarbaro, da Pianissimo, "Taci, anima stanca")

giovedì 19 marzo 2020

Kriton Athanasulis - Testamento

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre a me.
Le stelle brilleranno uguali ed uguali ti indurranno
le notti a dolce sonno.
Il mare t'empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S'è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco
tu guadagnando l'amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l'arma con la canna arroventata.
Non l'appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del tempo.
E ricorda. Quest'ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione mi ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento e piogge e grandine
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d'una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate,
ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austere forme d'uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e Auschwitz.
Fa presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d'un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici; già. I nemici dell'odio.
Ti lascio l'indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l'epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d'una città con tanti prigionieri,
dicono sempre si, ma dentro loro mugghia
l'imprigionato no dell'uomo libero.
Anch'io sono di quelli che dicono di fuori
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l'occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro,
il pane è fatto di pietra, l'acqua di fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d'essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.
(Kriton Athanasulis, Testamento, da "Due uomini dentro di me", 1957)