vacci piano, allora,
guardati attorno e impara qualcosa,
gira per le strade.
Il tuo guaio è che non sai niente della vita.
J. Fante, Chiedi alla polvere
Jan Vermeer, La lattaia |
La lattaia ha braccia sode e corpo robusto. Non somiglia alle bambole di porcellana degli altri suoi dipinti, e neanche alle loro affettate cameriere. Indossa abiti da poco, il corpetto di camoscio giallo limone cucito grossolanamente, il tessuto logoro delle maniche rimboccate, la stoffa ruvida del grembiule blu, la cuffia sgualcita. Vermeer non ha mai più dipinto una donna di bassa estrazione sociale come lei. Solo donne e ragazze della borghesia (gli uomini gli divennero presto superflui) in occupazioni frivole – bere, suonare, provarsi gioielli. Forse usò come modella Tanneke Everpoel, la domestica della moglie, per anni al servizio dei Vermeer e a loro legata da non banale devozione: nel 1663, durante una lite, si lanciò sul fratello della signora (pazzo violento che finì i suoi giorni in una casa di correzione per delinquenti) impedendogli di piantarle la punta di ferro del bastone nel grembo. La moglie di Vermeer era incinta.
Ma Vermeer spersonalizza la lattaia, come tutti i suoi modelli, privi di identità e inespressivi come maschere. Malraux paragonò i loro volti enigmatici a quelli dei kouroi della Grecia arcaica. La lattaia deriva da altri quadri, perché Vermeer – idolatrato per la minuzia del dettaglio naturalistico – inventava invece non dalla realtà ma dall’arte. Commercianti, birrai, fornai e mercanti di Delft apprezzavano la pittura di genere: scenette ambientate in bordelli, cucine e salotti, che col pretesto di moralizzare descrivevano i costumi contemporanei. Esisteva una Lattaia di Gerrit Dou, “fine pittore” di Leida. Ma Vermeer andò a cercarsi il modello in una Regina Artemisia dell’italiano Domenico Fiasella: un quadro di storia. Era ancora giovane e non limitato dall’ambizione di essere considerato un gentiluomo: fece qualcosa di inaudito (e irripetibile). Diede alla sua serva la dignità di una regina.
La lattaia è sola, nella cucina spoglia. Nella finestra a sinistra, da cui entra la luce del giorno, uno dei vetri è rotto. Gli arredi sono modesti: sul pavimento uno scaldino, sulla parete d’angolo un cesto di vimini e un secchio di rame. E la cornice scura di uno specchio. Che non riflette nulla: la pittura non è copia della realtà. In basso, il battiscopa è una fila di piastrelle quadrate di ceramica decorate con disegni azzurri: artigianato di qualità, sfornato dalle fabbriche di Delft. Vi si riconoscono dei Cupido. Forse alludono all’amore. Cosa pensa la serva mentre, le palpebre basse, assorta, lavora? Sul tavolo, una caraffa, una cesta, forme di pane e la ciotola di terracotta in cui lei facolare un filo di latte. Il pittore la inquadra dal basso. Forse perché dipingeva seduto, e quello era il suo punto di vista. Forse perché così la figura acquistava monumentalità. Vermeer, noto nel ’600 per l’abilità nella prospettiva, costruì attentamente quella di questa tela, in cui si vede ancora il foro dello spillo in corrispondenza del punto di fuga. Sulla mano destra della lattaia. Perché è il suo gesto che deve catturare lo sguardo. La luce batte sulla cuffia, sulla fronte della ragazza, e sul muro dietro di lei. L’effetto del chiaroscuro ritaglia la figura (evidenziata sulla spalla e sul lato sinistro dalla linea di contorno bianca), che sembra sospinta in avanti, verso lo spettatore. Ma il tavolo ingombro di masserizie lo tiene a distanza – di qua dalla soglia. Gocce di colore picchiettate con la punta tonda del pennello (è la tecnica del “puntinato”) riflettono la luce: il manico della cesta e la crosta del pane barbagliano. Il fiotto del latte e la ragazza acquistano una forza epica. Il tempo si ferma, un attimo insignificante si dilata all’infinito e racchiude il segreto della vita.
testo tratto da M.Mazzucco in "la Repubblica", 13.10.2013
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